SCOMPARE UN FASANESE ILLUSTRE
Deceduto il "Marco Polo" della Fiat
Lo scorso 21 giugno a Torino è deceduto Camillo Donati, nato a Fasano 79 anni fa: laureato in Scienze Diplomatiche, divenne manager di grosso calabro del Gruppo Fiat e pioneristico dirigente responsabile dell'azienda torinese in Cina.
Camillo Donati
Il rito funebre si svolgerà il 25 giugno a Torino negli stabilimenti Fiat. La salma, per volontà dello stesso Donati, sarà tumulata a Fasano.
Osservatorio lo elesse "fasanese dell'anno" nel dicembre del 2001.
Di seguito pubblichiamo l'intervista rilasciataci in quella circostanza.
Uno degli italiani più popolari in Cina è nativo di Fasano: si tratta del 68enne Camillo Donati, meglio conosciuto dai cinesi come “mister Naveco”, essendo il testimonial di uno spot televisivo che reclamizza i furgoni Iveco prodotti dalla Fiat nel Paese della Grande Muraglia col nome di Daily Naveco. Tanta è ormai la celebrità di Donati, che la gente con gli occhi a mandorla lo ferma per strada, lo tocca e gli batte le mani, come si fa in Occidente con un idolo del pallone. Nel 1986, per i suoi alti meriti manageriali, Camillo Donati è stato insignito dal governo cinese, insieme a un astrofisico e a un professore nipponico, della più alta onorificenza istituita per gli esperti stranieri, una sorta di Legion d'Onore, ma che, a differenza del riconoscimento francese, viene elargita con molta parsimonia. Chi è Camillo Donati? Figlio di don Peppino Donati, capostazione in servizio allo scalo ferroviario fasanese dalla fine degli anni Venti fino al 1936 (quando fu trasferito a Brindisi), Camillo rimase a Fasano insieme alle tre sorelle fino al 1956, anno in cui, a seguito della morte del padre, decise di trasferirsi a Torino.
Avendo deciso la nostra redazione di attribuirgli il titolo di Fasanese dell'anno 2001, abbiamo avuto il piacere di incontrarlo quest'estate, quando, come spesso gli accade nel periodo di ferie, è venuto a far visita ai suoi parenti fasanesi (una sua zia sposò infatti il nostro concittadino Ambrogio Potenza).
La conversazione fra Osservatorio e Camillo Donati si è svolta nella villa silvana di Marzio Perrini, dove il manager e la sua gentile consorte erano ospiti per una rimpatriata fra vecchi amici. È stato così lui stesso a raccontarci l'incredibile odissea professionale che lo ha visto in giro per il mondo come uomo di punta della più importante industria automobilistica italiana.
«Ho vissuto a Fasano fino all'età di 21 anni - ha esordito il dottor Donati con molta pacatezza -. Dopo aver frequentato il liceo classico, mi ero iscritto all'Università di Bari. Ho dovuto però lasciare Fasano nel 1956: avevo capito che difficilmente in questa cittadina avrei potuto far carriera. Mi trasferii così a Torino, sollecitato da un amico che lì già risiedeva da tempo, anche per delle opportunità che mi si offrivano nello sport, in quanto giocavo a pallacanestro. Studiavo, lavoravo e giocavo. Ebbi infatti la possibilità di lavorare alla Michelin continuando a giocare a basket. Ero il fratello maggiore di tre sorelle alle quali dovevo anche provvedere, perché avevo perso da qualche anno mio padre. Mi offrirono un lavoro che pare non divertisse molto chi doveva farlo: tingere le gomme di notte. Siamo nel '56: si guadagnavano circa 120 lire al giorno, somma enorme per quei tempi. Accettai, facendo quel lavoro per tre anni. Intanto mi ero laureato in Scienze Diplomatiche. Le mie sorelle erano cresciute e cominciavano a lavorare e guadagnare anch'esse. Cercai allora di coronare il sogno della mia vita: intraprendere la carriera diplomatica. C'era comunque da aspettare per il bando di concorso, e allora decisi di entrare nella Fiat come addetto al personale».
E qui comincia la sua escalation di manager...
«Sì. Iniziai a occuparmi del personale internazionale, cioè il personale che cura le attività all'estero. Ho avuto così la fortuna di lavorare con personaggi molto in vista nella Fiat, a cominciare dall'assistente personale dell'avvocato Agnelli. Nel '69 ho iniziato ad operare all'estero come controllore degli uffici Fiat nel mondo. Sono stato prima in Russia; poi, dal '70, in Africa (precisamente in Sudafrica e in Somalia). Nel '73 fui inserito nella delegazione ufficiale che operava in Brasile, e nel '74, sempre in terra brasiliana, sono stato nominato responsabile delle relazioni esterne e del personale. Nell'80, ritornato in Italia per un breve periodo, fui inviato di nuovo nel continente africano: in Uganda c'erano problemi molto grossi a causa della guerra civile, con forti preoccupazioni per la nostra azienda. Nell'83, invece, cominciai la mia avventura in Cina».
Lo sbarco della Fiat in Cina era una testa di ponte per la penetrazione delle auto italiane nell'immenso mercato dell'estremo Oriente...
«L'obiettivo era di siglare col governo cinese un accordo per la produzione dei nostri furgoni Iveco a Nanchino: nacque così la Naveco, cioè la più grande joint-venture dell'Italia in Cina. Si è trattato di creare una nuova azienda in società col governo cinese. Per prima cosa abbiamo cominciato ad insegnare l'italiano ai dipendenti che dovevamo assumere. Abbiamo così utilizzato ben 34 professoresse che istruivano 60 cinesi a turno. Costoro, dopo aver imparato l'italiano, venivano inviati a Torino o a Foggia per essere istruiti sul lavoro da fare. In pratica abbiamo dovuto creare dal nulla sia i dirigenti che gli operai. Nell'87 la Fiat decise di investire e di sviluppare il progetto cinese, nominandomi rappresentante generale dell'azienda in Cina. Mi ero accorto che le cose in quello sterminato Paese stavano cambiando, e allora proposi alla direzione generale di Torino di trasformare il contratto di licenza (che avevamo strappato già con molta difficoltà ai cinesi) in joint-venture, con la proposizione di un investimento di 250 milioni di dollari. La cosa, fra lo stupore generale, andò in porto. La mia più grossa soddisfazione è stata quella di essere riuscito ad ottenere dai cinesi il 50% delle quote della joint-venture, cosa che loro non avevano mai fatto prima, perché, fino ad allora, erano arrivati a offrire agli investitori esteri un massimo del 49% della compartecipazione societaria. È un grande onore per me: un risultato di prestigio che mi viene sempre riconosciuto. Infatti ancor oggi, a distanza di anni, a tutte le delegazioni italiane, composte anche da ministri e grandi uomini d'affari, gli esponenti del governo cinese raccomandano sempre di comportarsi con loro come ha fatto l'Iveco».
Dott. Donati, perché il suo progetto ha avuto successo in una nazione dove per gli investitori stranieri non è molto facile operare?
«Mi sono preoccupato di capire quali erano le esigenze della Cina nel settore dei trasporti: ho notato che c'era bisogno di grandi pullman. Abbiamo cominciato allora a operare anche in questo settore, fabbricando sia i bus da città, più piccoli e maneggevoli, sia quelli più grandi, destinati alle lunghe linee autostradali».
Come mai lei ha deciso di pubblicizzare personalmente i prodotti della Fiat Naveco, trasformandosi in testimonial televisivo?
«Dovendo lanciare i nostri automezzi sulla televisione cinese, insieme al presidente della società, che per legge deve essere un cinese, ci stavamo scervellando su un interrogativo: a chi affidare il compito di reclamizzare il prodotto negli spot televisivi? Pensavamo ad un grande attore o a un personaggio dello sport. Poi, quasi per scherzo, fu proposto di affidare a me il ruolo di testimonial. L'idea non mi dispiacque e ci lavorammo sopra seriamente. Fu subito un boom: per la prima volta in tutte le case cinesi entrava un europeo in doppiopetto che descriveva nei minimi particolari come vengono costruite le Naveco. Lo slogan si concludeva con la frase: “Lo stile europeo a Nanchino”, che è la città che ospita la fabbrica».
E questo spot le ha dato la popolarità in Cina!
«Certamente. Il dato d'ascolto televisivo del nostro spot è stato di oltre cento milioni di spettatori. Per un momento, lo dico scherzando, mi sono illuso di potermi fare un baffo degli alti indici di ascolto di Pippo Baudo in Italia».
Non dev'essere stato facile, però, imporre in Cina un prodotto italiano...
«All'inizio abbiamo avuto delle difficoltà. Il prezzo del Daily Naveco in Cina non è alla portata di tutti: costano circa 40 milioni l'uno. Parecchio, a confronto dei camioncini costruiti da aziende cinesi, che costano la metà. Ma, alla lunga, la qualità del nostro prodotto si sta affermando».
Ora lei sta facendo da apripista a un altro programma cinese della Fiat, ovvero il tentativo del gruppo torinese di essere presente nella futura produzione di auto: il cosiddetto “Progetto 178”, cioè una famiglia di veicoli derivati dalla Palio...
«Sì. Stiamo avendo dei problemi per la costruzione delle automobili perché non ci danno l'autorizzazione per la categoria. I cinesi hanno posto il veto alla produzione di automobili per uso privato. È un mercato nuovo, e tutte le più grandi aziende automobilistiche del mondo vorrebbero inserirsi. Nessuno però può giurare che si tratti d'una scelta definitiva: coi cinesi ci vogliono pazienza e perseveranza».
Dottor Donati, dopo aver tanto girovagato nel mondo, a distanza di tanti anni, che cosa è rimasto in lei di Fasano, il “paesello” natìo?
«Mi è rimasto nel sangue tutto: io mi sento sempre fasanese. Ho girato quasi tutto il mondo, ma ancora mi emoziona ritornare a Fasano e vedere Savelletri. Mi sento ritornare ragazzo. L'altro giorno, arrivando proprio a Savelletri, nei pressi del ristorante che sta a fianco di quell'angolo in cui prima si curavano le cozze, ho detto a mia moglie che subito dopo la curva ci sarebbero state una casa rossa e una chiesetta: non mi sbagliavo! Quell'angolo, così bello, così caratteristico, è rimasto impresso nella mia mente nonostante siano passati tanti anni. Salendo alla Selva, poi, ricordo con piacere le curve della Vernesina, della Juppa, la contrada di Torre Moscia. Inutile nasconderlo: Fasano mi è rimasta nel sangue».
A fine carriera, è previsto un possibile ritorno nella città della sua giovinezza?
«Credo di sì. Ogni tanto ci penso. Prima di prendere qualunque decisione, però, devo capire cosa vuol fare mio figlio, che attualmente lavora in Inghilterra ma che potrebbe anche trasferirsi negli Stati Uniti. Il mio sogno sarebbe quello di concludere la mia vita in questa città, magari cercando di offrire, come consulente, tutta l'esperienza che ho maturato in questi anni girando per il mondo. Di certo comprerò una casetta sul mare qui a Fasano per trascorrervi almeno due o tre mesi all'anno. Quel profumo ancora integro di mare, alghe e ricci è qualcosa di incredibile. Ma anche alcuni angoli delle nostre campagne mi ricordano gli splendidi paesaggi dell'Andalusia. L'unico vero problema è che qui c'è uno sviluppo un po' confuso. Credo che bisognerebbe razionalizzare soprattutto lo sviluppo turistico, creando dei piccoli villaggi. Credo poi che andrebbe sviluppata l'imprenditoria conserviera dei prodotti agricoli locali. Se si operasse in questa direzione, non ci sarebbe California che tenga. Si potrebbero creare dei poli di lavoro enormi, che produrrebbero ricchezza per tutti. A mio avviso bisognerebbe sviluppare le attività attraverso la realizzazione di medie aziende. Penso poi alla creazione di strutture sociali di servizio: qui c'è da portare i turisti tutto l'anno, anche d'inverno. La cosa più bella che ho visto a Fasano è la rete viaria».
Come ogni lettore può vedere, pur essendo ospite della sua città natale solo per qualche giorno, Camillo Donati ha immediatamente compreso quali sono i problemi e le esigenze di sviluppo economico di Fasano. E a un grande manager, abituato a seguire le vicende aziendali di un colosso industriale come la Fiat nei più svariati Paesi del mondo, non sfuggono le ricette immediate per risolvere alcune delle più annose questioni fasanesi.
Quello del dottor Donati, insomma, sembra quasi un programma amministrativo, e siccome ci avviciniamo a nuove elezioni comunali (previste per la prossima primavera), forse qualche candidato sindaco potrebbe anche prendere in prestito delle idee...
di Redazione
23/06/2012 alle 11:24:24
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